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Monologo di un cane coinvolto nella storia, poesia di Wisława Szymborska

Il “Monologo di una cane coinvolto nella storia” è una struggente poesia sui cani scritta da Wisława Szymborska dove l'autrice si immedesima in un cane.

Monologo di un cane coinvolto nella storia, poesia di Wisława Szymborska

Un cane pastore tedesco

Di Wisława Szymborska abbiamo apprezzato l’aspetto gattaro grazie alla sua struggente poesia Il gatto in un appartamento vuoto.

Tra i testi del Nobel per la Letteratura 1996, recentemente scomparsa, ci sono anche alcune poesie sui cani. Il Monologo di un cane coinvolto nella storia è una sorta di racconto in forma poetica narrato in prima persona da un cane che ha vissuto una vita di agi nelle grazie del suo amato umano. Un uomo che per gli altri poteva anche essere cattivo ma per il suo cane era il migliore, anzi lo definisce “unico nel suo genere”. Purtroppo non erano così altri esseri umani che sono venuti a contatto con il cane poeta.

Uno splendido esemplare di husky

Wisława Szymborska – Monologo di un cane coinvolto nella storia

Ci sono cani e cani. Io ero un cane eletto.
Con un buon pedigree e sangue di lupo nelle vene.
Abitavo su un’altura, inalando profumi di vedute
su prati soleggiati, abeti bagnati dalla pioggia
e zolle di terra tra la neve.

Avevo una bella casa e servitù.
Ero nutrito, lavato, spazzolato,
condotto a fare belle passeggiate.
Ma, con rispetto, senza confidenze.
Tutti sapevano bene chi ero.

Ogni bastardo rognoso è capace di avercelo un padrone.
Attenti però – lungi dai paragoni.
Il mio padrone era unico nel suo genere.
Una muta imponente lo seguiva a ogni passo
fissandolo con ammirazione timorosa.

Per me c’erano sorrisetti
di malcelata invidia.
Perché solo io avevo diritto
di accoglierlo con salti veloci,
solo io – di salutarlo tirandogli i calzoni.
Solo a me era permesso,
con la testa sulle sue ginocchia,
accedere a carezze e a tirate di orecchie.
Solo io con lui potevo far finta di dormire,
e allora si chinava sussurrandomi qualcosa.

Con gli altri si arrabbiava spesso, ad alta voce.
Ringhiava, latrava contro di loro,
correva da una parete all’altra.
Penso che solo a me volesse bene,
e a nessun altro, mai.

Avevo anche doveri: aspettare, fidarmi.
Perché compariva per poco e spariva per molto.
non so cosa lo trattenesse lì, nelle valli.
Intuivo però che si trattava di faccende pressanti,
perlomeno pressanti
quanto per me lottare con i gatti
e tutto ciò che si muove inutilmente.

C’è destino e destino. Il mio mutò di colpo.
Giunse una primavera,
e lui non era accanto a me.
In casa si scatenò uno strano andirivieni.
Bauli, valigie, cofani cacciati nelle auto.
Le ruote sgommando scendevano giù in basso
e si zittivano ditro la curva.

Sulla terrazza bruciavano vecchiumi, stragi,
casacche gialle, fasce con emblemi neri
e molti, moltissimi cartoni fatti a pezzi
da cui cadevano fuori bandierine.

Gironzolavo in quel caos
più stupito che irato.
Sentivo sul pelo sguardi sgradevoli.
Quasi io fossi un cane abbandonato,
un randagio molesto
che già dalle scale si scaccia con la scopa.

Uno mi strappò il collare borchiato d’argento.
Uno mi diede un calcio alla ciotola da giorni vuota.
E poi l’ultimo, prima di partire,
si sporse dalla cabina di guida
e mi sarò due volte.

Neanche capace di colpire nel segno,
così la mia morte fu lenta e dolorosa
nel ronzio di mosche spavalde.
Io, il cane del mio padrone.

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Foto | spencerdaxTobyotter

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