Gattari da legare: Cats and the City
Tre generazioni di gattare e la lotta contro la città.
La mia vita da gattara è iniziata prestissimo, durante l’infanzia, e ha avuto come sfondo un grosso paese del Vesuviano che ha da qualche anno assunto ufficialmente lo status di città. Quando mia nonna si trasferì in quella che sarebbe diventata la vecchia casa di famiglia, si trovò in una casa praticamente isolata, lontana dal centro. Volle con sé un grosso cane, per sentirsi più sicura: dai racconti, però, sembra che questo grosso cane fosse più adatto a far giocare i bambini che a spaventare gli intrusi, e che fosse così inefficace da non riuscire a fermare la lenta e inesorabile conquista da parte dell’esercito dei gatti che, in breve, avrebbero trasformato mia nonna in una gattara.
La casa in periferia, poco tempo fa, è stata rivenduta come “centralissima”: l’unica cosa a non essere cambiata, nella geografia del luogo, era la fauna. Con gli anni, le gattare nel vicinato sono aumentate: inizialmente guardavano con sospetto la mia famiglia, ascoltavano i miei parenti parlare coi gatti, portare il cibo, sistemare rifugi. Poi, piano piano, hanno cominciato a parlare anche loro coi gatti. Per carità, non erano la maggioranza! La popolazione del quartiere si divideva equamente tra indifferenti e ostili, ma la vicinanza del fiume faceva sì che la popolazione di topi fosse inversamente proporzionale alla presenza di felini, e questo era un dato di fatto.
La prima immagine che mi viene in mente, se ripenso alla mia infanzia, è quella della vista dalla mia finestra: ogni superficie al sole era occupata da un gatto. Un tappeto soffice che si stendeva oltre la mia limitata visuale. Di notte, se tornavo a casa dopo essere andata fuori, ero costretta a fermarmi e a lanciare urli verso cose che solo io vedevo: “Che ci fai lì? Non devi stare in mezzo alla strada! Fila subito a casa!”. Un movimento visto con la coda dell’occhio, un manto illuminato da un lampione e sapevo subito quale vagabondo redarguire. A quest’esercito di vagabondi si univa l’esercito dei gatti di casa, e per essere arruolati bastava un semplice requisito: essere quanto più possibile malati, col minor numero possibile di zampe e, preferibilmente, essere mezzo sordi. Così è capitato che, quanto più la natura li aveva condannati a morte, tanto più i gatti di casa hanno vissuto rispetto agli altri, quelli sani.
Questo forzare la natura è stato inevitabile, per noi, e abbiamo visto passare decine e decine di gatti, tutti amati. Ogni volta che scrivo per voi, me ne viene in mente qualcuno: generalmente cerco di pensarci il meno possibile, perché tanti sono morti a causa delle auto e, se ci si pensa troppo, si rischia di non volerne più sapere, perché il dolore di tante perdite diventa insopportabile. Siamo riusciti a mettere un limite a questa mattanza con le sterilizzazioni, ma è una goccia nel mare, perché delle gattare non possono da sole censire e sterilizzare la popolazione felina di una intera città o di una nazione. Non è loro, il compito.
Qualcuno di voi, che segue Petsblog da più tempo, avrà notato che non ho mai fatto il nome di uno solo dei miei gatti. Potrebbe essere una sorta di scaramanzia, che ha avuto origine proprio con la colonia: dare un nome ai gatti avrebbe voluto dire farci coinvolgere troppo. E, così, abbiamo sempre agito come un chirurgo che, del proprio paziente, vuole solo sapere dove intervenire. Precauzione davvero ridicola: tra di noi, per capirci, finivamo col dire “il gatto tigrato piccolo, il fratello del nero più sfacciato!”, battezzandolo immediatamente “Tigratopiccolofratellonerosfacciato”. I Nativi americani sono dei dilettanti, rispetto a noi. Adesso ci siamo tutte trasferite in posti di campagna, dopo aver iniziato altre gattare al mondo delle colonie, dopo aver creato altre fanatiche dell’alimentazione equilibrata e della necessità delle sterilizzazioni. Siamo qui e, mentre nuove orde di mici ci assediano e nuove gattare vengono istruite, aspettiamo che la città ci raggiunga. Ancora una volta.
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